venerdì 30 settembre 2011

A pensar male si fa peccato...


A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. O almeno questo è quello che dice Giulio Andreotti (o almeno questo è quello che gli viene attribuito), ed è una regola più o meno applicabile a ogni campo dell'esperienza umana.
Anche noi soccorritori del 118 abbiamo a che fare con questa regoletta, si pensa male e ci si azzecca con una certa puntualità.

E' con questo spirito, con quello di chi ha pensato male dunque, che partiamo per una missione in codice verde in una zona centrale di Milano per un paziente "etilico" che ci riferiscono sdraiato in mezzo alla strada. La catena di "pensar male" parte però dal 118 che, ricevuta la chiamata di un passante, rubrica il soggetto sdraiato a terra in una zona generalmente battuta da beoni come il solito ubriaco, che sia un senzatetto o una vittima della movida del venerdì sera starà poi all'equipaggio dell'ambulanza scoprirlo.
Partiamo e lascio immaginare i commenti a bordo, non siamo mai molto contenti di questo genere di servizi dato che i pazienti di solito, oltre ad avere un odore particolarmente incisivo, sono anche poco trattabili ed è facile che inveiscano contro di noi o che, alla peggio, ci vomitino addosso.

Arriviamo sul posto, in un fiorire di sguardi tra il compassionevole e quello di che ormai di ciucchi ne ha visti tanti, e ci avviciniamo al paziente che giace spalmato sul marciapiede con una pozza di vomito a pochi centimetri da lui. Ecco un buon modo per cominciare la serata in servizio, un bell'ubriaco alle otto di sera e ci si chiede cosa succederà alle undici. Mentre siamo impegnati a guardare con disapprovazione lo spalmato, il capo equipaggio lo apostrofa con il solito informale: "Allora, come ti senti? Bevuto tanto?"(sì, perché se bevi e ti sdrai per strada perdi il diritto al "lei").
Il paziente fatica a rispondere e le cose sono due: o ha bevuto veramente tanto, oppure non ha bevuto affatto e si tratta di altro. La seconda tesi è avvalorata anche dalle dichiarazioni del nostro assistito che prima di tutto nega l'assunzione di alcol, e soprattutto ci aggiorna sulla sua storia clinica dalla quale viene fuori che non è nuovo a questo tipo di eventi che sono stati ricondotti dai medici da cui è seguito a vari problemi cardiaci.

Insomma, il paziente passatoci come etilico tanto etilico non è, anzi, è un ragazzo normalissimo (e pure simpatico) che suo malgrado è solito sentirsi cosi male da doversi per forza sdraiare per terra, poi se mangia pure un vasetto di pomodori secchi lo vomita, ma è stato un caso una tantum in onore della nostra ambulanza. 
Dopo averlo accompagnato in ospedale per i controlli di rito è chiaro a tutti che abbiamo sfiorato la figuraccia, ora, è vero che se ti passano il paziente come etilico e quando arrivi trovi uno per terra di fianco al vomito è molto probabile che sia la solita storia, ma è sempre bene dare il beneficio del dubbio anche al caso che sembrerebbe più ovvio. A pensar male si fa peccato e spesso ci si azzecca. 
Spesso, non sempre.


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mercoledì 28 settembre 2011

La colonnina


Girando per le vie di Milano (e non solo ovviamente) è possibile spesso vedere delle ambulanze che sostano tranquille in alcuni punti nevralgici della città. Potrebbe sembrare una pausa che a pranzo un panino e ora non ci vedo più dalla fame, in realtà si tratta di stazionamenti disposti dalla COEU (la Centrale Operativa Emergenza Urgenza del 118) e distribuiti in tutte le zone metropolitane per assicurare una copertura migliore in caso di bisogno.
Si dice "colonnina", e fondamentalmente si tratta di parcheggiare dove si riesce l'ambulanza entro una certa zona data dalla centrale. La colonnina ha i suoi lati positivi come i suoi lati negativi, i quali dipendono in maggior parte, come è facile intuire, dall'ubicazione della stessa: se siamo in Fontana (Piazza Duomo per capirci) o in Oberdan allora si può sperare di non annoiarsi troppo tra il viavai di gente e uno sguardo alla cattedrale gotica simbolo di Milano o languide occhiate alla gelateria in Porta Venezia. Se invece si finisce in Baracca, Vittoria Battisti, Bottini o più o meno qualsiasi altro posto, le cose sono diverse, e l'attesa di un servizio può diventare un'attività estremamente noiosa.

Dalla colonnina dunque si parte per le missioni e, a seconda del codice assegnato (in questo post spiegate le differenze), si fa anche la temuta partenza in sirena che spaventa generalmente un po' tutti i presenti e che trasforma la colonnina da semplice in colonnina sonora (lo so, è brutta).
Questa partenza spumeggiante però non avviene di notte, tranquilli, le colonnine che si vedono in giro per Milano infatti sono operative fino alle 23:30 circa, orario che fa scattare la rapida chiamata alla centrale per essere autorizzati al rientro in sede, luogo da cui partirà l'ambulanza in caso di chiamate notturne. Infatti di notte i mezzi di soccorso non stazionano in strada, ma si rintanano nelle sedi delle rispettive associazioni, da un lato questo vuol dire minore capillarità (compensata però dal minore traffico notturno), ma dall'altro permette ai soccorritori di cenare con più calma e di fare almeno un tentativo di dormire su un letto, invece che sui sedili del mezzo. Dico tentativo perché di notti senza chiamate non ne ho ancora viste, ma almeno il sonno a macchia di leopardo è su qualcosa di comodo.

Che si sia in colonnina o in sede comunque le missioni arrivano per via telematica su una centralina di bordo direttamente in ambulanza, anche se il collega al centralino ha sott'occhio tutta l'attività ed è pronto a coprire personalmente il servizio informatico in caso di guasti o particolari necessità.
Da ultimo diciamo che la colonnina è occasione per fare nuove e interessanti conoscenze: la divisa, si sa, attira l'attenzione, la nostra in particolare però attira l'attenzione di tutti i tipi strani che girano senza meta (o con una meta tutta loro). E' quindi molto probabile che il soggetto in questione, dopo un po' di gironzolare, capiti a ridosso dell'ambulanza per due chiacchiere o per farsi offrire un caffè. 


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sabato 24 settembre 2011

Trattamento Sanitario Obbligatorio


In queste pagine ho sempre cercato di dare una spolverata d'umorismo a temi che magari non sono i più immediatamente ricollegabili a quattro risate tra amici. Il rischio è quello di passare per cinico, ma non è che le alternative fossero molte visto l'oggetto trattato da questo blog: è chiaro che quando la gente chiama un'ambulanza lo fa perché c'è qualcosa che non va, mica ci chiamano per offrirci una bottiglia di champagne (o meglio, è capitato che ce la offrissero, ma solo dopo aver soccorso il paziente). Ecco che quindi a raccontare di notti e giorni in arancione si rischia di farlo deprimendo i lettori, la soluzione è, almeno secondo me, di cercare di raccontare i fatti evidenziandone i lati, se non proprio comici, almeno più frizzanti. Detto questo, oggi si parla di trattamento sanitario obbligatorio, il cui maggiore esponente mondiale è Hannibal Lecter.

Il trattamento sanitario obbligatorio, detto amichevolmente TSO, consiste in un ricovero coatto del paziente psichiatrico o infettivo a tutela della sua sicurezza o di quella degli altri. Tralasciamo l'opzione dell'infettività e concentriamoci sul paziente fuori di melone, che è un po' il grande protagonista di questa storia anche solo perché di infettivi pericolosi non ne capitano mai. Per parlare di TSO è importante specificare l'instabilità del soggetto perché se fossimo in presenza di una persona senza turbe questa potrebbe chiaramente rifiutare le cure, anche se qui si apre l'annoso problema della stabilità mentale: stabile rispetto a cosa? Decidiamo noi perché siamo stabili o perché siamo più degli instabili? E' perché lo stabile può rifiutare le cure mentre l'instabile no? Se volessimo vederla sotto una logica eugenetica questo non ha nessun senso, forse allora la scusa dell'incolumità del paziente è solo un altro modo di proteggere l'incolumità altrui. Ma stiamo divagando: punto, a capo, e riprendiamo.

Farò un esempio così per chiarire bene il meccanismo che scatta in caso del nostro paziente psichiatrico che mette a rischio la sua o l'altrui incolumità.
Ci chiamano in codice giallo in una via del centro di Milano perché da una finestra all'ultimo piano di una palazzina dell'ALER (le case assegnate dal comune ai meno abbienti) c'è una donna che si vuole buttare di sotto. Siamo i primi ad arrivare sul posto e, una volta saliti in casa, cerchiamo di capire cosa stia succedendo e se qualcuno si sia già fatto male. La signora sembra incolume, ma è una furia ed inveisce contro il compagno accusandolo di furto, ricettazione, truffa, contrabbando d'armi e intelligenza col nemico. Lui dal canto suo ha l'aria rassegnata, non che sembri proprio un tipino a modino, però almeno sembra esserci con la testa. Mettiamo in sicurezza la stanza coprendo la finestra senza dare troppo nell'occhio e iniziamo le procedure di rito, ma già nell'aria tre letterine iniziano a intravedersi tra la nebbia del fumo di sigaretta e la puzza di cane bagnato: TSO.
Dopo poco arrivano i pompieri che prendono in mano l'aspetto sicurezza della situazione, seguiti a pochi minuti dai Carabinieri che invece prendono in mano l'aspetto "il primo che da in escandescenza viene con noi".

La paziente sembra essere solita a questi comportamenti, così ad occhio soffre di un bel mix di patologie psichiatriche e Tavernello (il buon vino nel cestello) che la rendono pogo negoziabile, neanche l'arrivo dei figli, accompagnato tra l'atro da una allegra sequela di insulti, può nulla per riportare la calma.
A questo punto l'unica cosa da fare è avvisare il 118 e richiedere la presenza di un medico sul posto, l'unico in grado di prescrivere il TSO. E qui la cosa va per le lunghe, purtroppo infatti i tempi di risposta della Guardia Medica possono essere ottimi come biblici, va proprio a momenti, e manco a dirlo a noi sono capitati quelli biblici. Taglio corto: il medico arriva, prescrive, la signora è fortunatamente convinta a muoversi senza bisogno di coazione e dopo più di due ore in una casa che pareva uscita dal teatro dell'assurdo partiamo alla volta dell'ospedale scortati dai militari.

Non sappiamo cosa sia successo dopo, probabilmente dopo un brevissimo ricovero la paziente è tornata a casa con un sacchettino di psicofarmaci che puntualmente non prenderà, per quanto riguarda il nostro operato possiamo solo sperare che i TSO non capitino spesso, prima di tutto perché, al di la dell'umorismo, non è mai bello vedere certe situazioni. E poi perché sono tra gli interventi che occupano più personale tra 118, 115 e 113/112 portandolo via da altri servizi più utili.


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giovedì 22 settembre 2011

Notte in ambulanza.


Immagino che alcuni dei visitatori di questo blog capitino tra queste pagine per informarsi sull'operato dei Soccorritori del 118, immagino che qualcuno di questi visitatori sia pure interessato a diventare un volontario e cerchi di capire che cosa facciamo veramente e quali sono le situazioni che può aspettarsi durante il servizio.

Bene, per tutte queste persone (sperando che ce ne siano veramente!) ho pensato di fare un post un po' diverso dal solito, oggi non parliamo delle mie esperienze, non racconto di questioni organizzative, ma dedico un po' del nostro spazio a due video che raccontano la notte in ambulanza di due associazioni del capoluogo lombardo: la Croce Verde APM e la Croce Rosa Celeste.
Entrambe le associazioni (ri)animano le notti milanesi con costanza e professionalità, ma bando alle ciance: ecco i video!

Una notte con la Croce Verde APM:


Una notte con la Croce Rosa Celeste:

Attenzione, non tutte le notti in ambulanza sono emozionanti e adrenaliniche, ci sono anche e soprattutto notti che si passano tra gente col mal di pancia e senzatetto ubriachi fradici, ma alla fine si riesce a trovare qualcosa di positivo praticamente tutte le sere, anche solo per le chiacchiere con i colleghi.



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lunedì 19 settembre 2011

Il Massaggio cardiaco



Provate a dire 142 nomi di nazioni diverse, provate. Non è mica così facile vero? Ora pensiamo che Baywatch è stato tradotto in 44 lingue e distribuito appunto nella bellezza di 142 paesi, non c'è da stupirsi quindi che sia la serie televisiva più vista al mondo!
Personalmente non ne sono mai stato un appassionato spettatore, ma ammetto che per un certo periodo della mia vita, a causa più che altro di un fortuito posizionamento temporale, mi è capitato di seguirla. Una cosa mi è rimasta in mente, forse due in effetti, ma solo una di queste ha a che fare con il contenuto delle nostre pagine dato che non trattiamo di chirurgia plastica: la rianimazione in spiaggia. Una puntata sì e l'altra pure il buon Mitch Buchannon si ritrovava alle prese con un bagnante in arresto cardio circolatorio e procedeva al massaggio cardiaco tra gli sguardi trepidanti dei presenti. Inutile dire che quella visione abbia completamente falsato la mia percezione della rianimazione, facendomi credere che si possano riportare in vita i morti con cinque, numero cinque, colpi al torace (ricordo proprio le voci che contavano concitatamente "Uno, due, tre, quattro, cinque!" prima di insufflare e riceversi la sputata di acqua dell'affogato tornato tra i vivi).

Manco a dirlo, nella realtà siamo ben lontani dalla rappresentazione televisiva, siamo ben lontani sotto ogni punto di vista: non siamo sulla sabbia dell'assolata California, non siamo circondati da gente in costume e, soprattutto, il malcapitato massaggiato non si rialza in pochi secondi permettendoci un suadente sguardo di compiaciuta intesa da incrociare con gli adoranti occhioni della bella ragazza di turno.
Accertata l'incoscienza del paziente (non nel senso che sia un tizio che attraversa col rosso bendato, nel senso proprio di mancanza della consapevolezza di se e dell'orientamento nel tempo e nello spazio) lo si dispone su un piano rigido e si controlla la pervietà delle vie aeree. Si controlla che non respiri e che non si muova per 10 secondi e si decreta l'ACC (Arresto Cardio Circolatorio) incominciando le compressioni toraciche. Dopo trenta compressioni (trenta, non cinque) si praticano due insufflazioni con l'ambu e si continua così fino a nuove indicazioni della centrale operativa.

Abbiamo già parlato su queste pagine del corso per diventare Soccorritori e di quanta attenzione venga data alla pratica. Una delle attività maggiormente svolte è l'addestramento al BLS, il Basic Life Support, che comprende tra le altre cose anche il massaggio cardiaco per il quale ci si esercita con dei manichini che simulano più o meno il comportamento della cassa toracica umana e si ascoltano le raccomandazioni degli istruttori: "E' faticoso, dosate la forza, tenete d'occhio i familiari del paziente, attenti alle costole...".
Per esperienza personale, durante un qualsiasi addestramento, si tende a dipingere la situazione più dura di quanto non sia in realtà, così da preparare gli allievi al peggio possibile. Ora, nel caso del mio addestramento BLS posso dire che non fosse un'esagerazione: massaggiare è veramente faticoso, si opera veramente in contesti estremamente pesanti dal punto di vista psicologico e le costole si frantumano veramente sotto le compressioni. Ah, e il paziente non si risveglia.
Il massaggio cardiaco può dunque fare la differenza, ma non è una pratica miracolosa in grado di resuscitare la gente, anche se lo si vede scritto negli occhi di tutti i presenti, soccorritori compresi, che ci si spera sempre.


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venerdì 16 settembre 2011

La colazione dei campioni.



Sappiamo tutti il valore di una buona prima colazione, è fondamentale cominciare la giornata con il piede giusto mangiando con calma e prendendosi un po' di tempo per se stessi. Come lo sappiamo, sappiamo anche che questo non succede quasi mai: tra sveglie stressanti, tazzine di caffè bollente bevute in 3/4 secondi e brioches mangiate in macchina sulla via del lavoro, riuscire a fare una buona colazione rilassata è diventato un lusso.
Bisogna poi vedere in cosa consiste la colazione, qui nel Bel Paese infatti si parla di caffè, cappuccino, brioches ed in generale di piccole quantità di cibi molto dolci. Basta salire al nord Europa però per incontrare una colazione come da immagine d'apertura, a base di salsicce, fagioli, uova, funghi ed ogni altra pietanza che ai più mediterranei provocherebbe un'istantanea nausea mattutina.
Può capitare, però, di svegliarsi di ottimo umore, convinti di poter affrontare tutto, ed è un po' la storia di una missione che è capitata al mio equipaggio qualche tempo fa.

Veniamo chiamati in codice giallo per dei forti dolori addominali in un negozio, ma non un negozio qualsiasi, uno di quei negozietti chic delle vie del centro, ma non una via qualsiasi, una di quelle viuzze dello shopping strette e traboccanti di persone. Lascio immaginare la difficoltà di operare in un contesto del genere: l'autista diventa subito oggetto delle occhiatacce dei guidatori delle poche auto di lusso ferme in coda dietro all'ambulanza, ma del resto non è mica facile liberare la carreggiata in una situazione simile. Non ci sono molti passi carrabili, e quelli che ci sono sono comunque stretti e ulteriormente compressi dal parcheggio selvaggio tipico delle vie del centro, già solo per gestire la logistica ci vuole non poco sangue freddo, ma alla fine sono questioni da autista, e noi entriamo nel negozio per scoprire il perché della chiamata al 118.

Subito ci indirizzano verso il magazzino, dove troviamo a terra una delle commesse: è in posizione fetale, rannicchiata su se stessa, trema, suda freddo ed ha sofferto di rilascio sfinterico (pipì addosso tanto per capirci). Alla nostra vista inizia a dire che non vuole morire, che ormai è finita, che il dolore è insopportabile e soprattutto che non riesce nemmeno ad alzarsi, ormai sembra rassegnata a lasciarci le penne e a farlo proprio lì, nello scantinato del negozio dove lavora. Le diciamo che non è così grave, ma che comunque sarebbe saggio andare in ospedale a fare un controllino. Lei vomita, e poi cerca di strisciare letteralmente su per le scale dicendo che non ha bisogno d'aiuto, che non le serve la sedia a rotelle e che comunque, ribadisce, l'armageddon è alle porte e probabilmente nessuno arriverà al primo pomeriggio.
Per farla breve riusciamo a metterla a forza sulla sedia e, mentre ci dirigiamo verso l'ambulanza, cerchiamo anche di capire cosa sia successo.
"Soffre di qualche malattia? Ha mangiato qualcosa? Ha allergie particolari?"
"Vedo i cavalieri dell'apocalisse, ho solo fatto colazione, pentitevi finché siete in tempo..."
"E cosa ha mangiato signora?"
"Lenticchie e Coca Cola..."
Ebbè, ma allora è chiaro. Io capisco anche il volersi sentire europei a tutti i costi, ma se uno non ha un certo addestramento allora è bene che si mantenga sugli standard cui è abituato. Se invece di brioches e cappuccio ti prendi lenticchie e coca, il minimo che ti puoi aspettare è di avere qualche mal di pancia nel corso della mattinata, tanto più che ad insistere con le magliettine leggere si sa che la pancia prende freddo...!


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mercoledì 14 settembre 2011

I codici di missione.


Quando il 118 passa la chiamata alle varie associazioni lo fa specificando il codice d'invio, codice che è (e fin qui non ci voleva molto) legato alla supposta gravità del paziente che si va a soccorrere. Dico supposta perché la cosa potrebbe essere più grave (raro) o meno grave (capita) di quella che ci si aspetta, questo per un'eterogenea serie di fattori che va dall'incapacità del paziente di specificare bene le sue condizioni all'improvviso aggravarsi (o attenuarsi) della situazione. Ma questa è un'altra storia, rimaniamo sulla carta e facciamo una rapida presentazione dei tre codici che qualificano il livello di urgenza della missione assegnata all'equipaggio di un'ambulanza.

CODICE VERDE
Com'è facile da intuire il verde è il colore delle missioni meno delicate, quelle in cui il paziente non è in pericolo di vita e tutto può essere fatto con relativa calma. Da protocollo non è permesso l'uso dei dispositivi di segnalazione visiva e sonora (prosaicamente la sirena) e quindi ci si ferma a tutti i semafori e si circola come tutte le altre macchine. Tacendo dell'ovvia attenzione che viene comunque prestata è abbastanza ovvio che su un codice verde l'equipaggio non sia proprio in fibrillazione da maxi emergenza, si sa che (a scanso di drammatici peggioramenti) si va incontro ad una situazione tranquilla e si può operare in tutta calma.

CODICE GIALLO
Qui le cose si fanno più complicate, il paziente non è in pericolo di vita, ma le sue condizioni richiedono il celere intervento di un medico, nella maggior parte dei casi per capire esattamente cosa sta succedendo. Sul giallo si va in urgenza e cioè si attaccano le sirene e si buca qualche semaforo. E' il codice più difficile da interpretare durante il viaggio, è piena la storia di gialli che cambiano colore una volta visto effettivamente il richiedente, spesso l'operatore del 118 in dubbio tra due codici assegna quello più grave, meglio una cautela in più che una in meno. Purtroppo capita anche di avere gialli che si rivelano particolarmente impegnativi, un improvviso cambiamento delle condizioni del paziente e ci si può ritrovare ad avere molta, molta fretta.

CODICE ROSSO
Il rosso è il colore dei codici più gravi, il paziente ha immediato bisogno di un medico e la velocità delle operazioni diventa fondamentale: si parte in fretta e si accende subito la sirena, sta poi all'autista riuscire a bilanciare la necessaria velocità con l'altrettanto necessaria attenzione in strada, quattro soccorritori fuori gioco per un incidente non servono proprio a nessuno. In ambulanza, durante il (breve) viaggio, ci si prepara al peggio: si stabiliscono i ruoli nel caso di arresto cardiaco o di incidente stradale per esempio e si fa in modo che tutto vada liscio e secondo i protocolli.

I codici di rientro, quelli cioè di trasporto del paziente, sono un'altra storia e li affronteremo in un altro post. Qui ci tengo a sottolineare soltanto che se vedete un'ambulanza che sfreccia a sirene spiegate si può stare certi che non sia un trucchetto per saltare il traffico e arrivare prima a farsi il caffè, le sirene sono accese per precise disposizioni della centrale operativa di emergenza urgenza (che per quanto riguarda l'area di Milano si trova all'ospedale Niguarda) e per un motivo più che buono, lo stesso che nel dubbio fa assegnare un codice di gravità maggiore: meglio una cautela in più che una in meno.

Nota a margine: tutto quanto detto fin'ora non vuol dire che non sia divertente andare in sirena, anzi, a seconda dell'indole dell'autista può essere un vero giro di giostra!


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lunedì 12 settembre 2011

L'importanza di chiamarsi...


Quando si riceve una chiamata per aggressione ad una donna è possibile capirne la natura (a grandi linee, sia chiaro) dall'ora e dalla zona della chiamata. Se è notte fonda, tipo le 3, e si viene mandati in una strada abitualmente battuta da prostitute è abbastanza probabile che ci sia stato qualche screzio tra la passeggiatrice ed un cliente.

E' con questo spirito che ci si avvia a vedere che succede in codice giallo: una volta sul posto però non si trova nessuno, nessuna donna, nessun uomo, e soprattutto nessun'aggredita. Stiamo per rientrare quando ci accorgiamo di due figure che discutono animatamente in una piccola parallela, facciamo per avvicinarci, ma ci vedono e la donna si butta a terra gridando. Ad ogni passo che facciamo verso di lei le cose si fanno sempre più chiare, la sua figura è alta, massiccia, un 48 di piede e due mani possenti. Non è una lei, non è un trans, è proprio un lui.
Un lui vestito completamente da donna che si agita come un pazzo urlando, non sembra ferito, ma c'è del sangue a terra e non ne capiamo la provenienza. Uno strattone più forte degli altri e cade la parrucca rivelando un taglio sulla testa rasata.

Riusciamo a capire che si chiama Andrea, ma facciamo fatica a gestirlo ed in soccorso arriva una pattuglia della Polizia, gli agenti ci danno una mano a caricarlo in ambulanza e si parte alla volta dell'ospedale in codice verde, non è grave, anche se urla e scalcia come se fosse la fine del mondo. Arrivamo al triage e partono le procedure di rito: ripete di chiamarsi Andrea, il cognome è una cosa tipo Dos Santos Do Nascimiento, insomma, il tipico travestito brasiliano. Cerchiamo di provargli pressione e saturazione ma non ce n'è, si dimena, urla, fatichiamo a tenerlo. Capita con una certa frequenza che alcuni tipi di pazienti siano più agitati del dovuto, ma in questo caso stiamo parlando di un omone ben piazzato completamente vestito e truccato da donna e ovviamente l'immagine ha il suo effetto su tutte le persone presenti.
Andrea stai fermo! Dobbiamo provarti la pressione!
E lui di colpo serio, lucido, chiarissimo: "Ma io non sono Andrea... Io sono Chanel!"

Tutto il pronto soccorso esplode chiaramente in quella risata che veniva trattenuta da minuti aggrappandosi alla professionalità, ma quando è troppo è troppo.


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venerdì 9 settembre 2011

Necessario addestramento e fondamentale esperienza.



Il cammino per diventare un Soccorritore Esecutore (almeno in Lombardia) è moderatamente lungo, ma non particolarmente complesso. Il corso che si deve seguire prima di sostenere l'esame per la qualificazione regionale dura 120 ore, ma tratta più che altro materie che più o meno tutti conosciamo grazie a qualche ricordo dalle ore di scienze alle scuole medie, non sono dunque molte le ore veramente nuove, e queste sono più che altro dedicate all'effettiva attività che si svolge in ambulanza e all'utilizzo dei presidi medici con cui abbiamo a che fare (niente di che, ma è sempre meglio sapere come aprire la bombola d'ossigeno invece che stare a svitarla un po' dappertutto davanti a pazienti interdetti).
Molte ore sono dedicate alla pratica, si ripetono più e più volte degli scenari d'intervento in maniera da fissare nella memoria le procedure e i protocolli, così s'impara a gestire un po' tutto, dall'incidente stradale all'infarto.

Dopo il corso c'è l'esame, a cui magari dedicheremo un post più avanti, dopo il quale per quanto ne sa il 118, il novello soccorritore è in grado di coordinare l'equipaggio di un'ambulanza. Chiaramente non è affatto così, perché se da un lato è vero che dal punto di vista formale nulla distingue il neo certificato dal suo collega con vent'anni d'esperienza, sarà proprio quest'ultima a fare la differenza una volta sul campo con tanti piccoli "trucchi del mestiere" che migliorano le prestazioni.
Sapere come manovrare bene la barella, sapere qual'è il modo meno faticoso di portare un paziente di cento chili giù per cinque piani di scale, sapere che magari un sacchetto della spazzatura può essere utile che non si sa mai, un po' come qualche paio di guanti extra quando si maneggia qualcuno preso a bottigliate... Insomma, l'addestramento è chiaramente fondamentale, ma per essere veramente formati bisogna averne viste tante.

Detto questo potrebbe sembrare che ci sia un tetto massimo alle esperienze, un numero chiuso di tipologie di intervento che una volta esaurito si tratta solo di vedere le repliche. Non è così, anche se è vero che ci sono alcune missioni che sembrano ripetersi con una certa frequenza (anziano caduto in casa, ubriaco in strada, incidente di bassa gravità) capiterà sempre di trovare qualcosa di nuovo.
Magari, dopo dieci anni di esperienza, si viene per la prima volta assegnati al trasporto di materiale biologico da un ospedale all'altro. Niente di particolarmente adrenalinico, solo un piccolo esempio per sottolineare come il bagaglio di esperienza non sia mai veramente pieno.


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mercoledì 7 settembre 2011

Pazzia sì, ma con metodo.


"In linea di massima, a proposito della battaglia,
l'attacco diretto mira al coinvolgimento;
quello di sorpresa, alla vittoria."
Sun Tzu, L'Arte Della Guerra

No, calma, questo non è diventato di colpo un blog dedicato al mestiere delle armi, ma l'aforisma introduttivo ci serve per vedere sotto una particolare luce gli accadimenti protagonisti di questo post. Serve per tenere bene a mente che è più o meno da quando esiste la guerra (e cioè più o meno da quando esiste l'uomo) che l'attacco a sorpresa viene considerato fondamentale nella pianificazione strategica di un combattimento, tanto fondamentale da essere in grado di ribaltare i pronostici fatti sulla carta.

E' una calda notte estiva, la città è ancora mezza in vacanza e basta uscire dalle arterie più trafficate per non trovare che poche macchine stanche qua e la, e vederle scomparire nelle viuzze. Veniamo chiamati per un'aggressione, materia abbastanza comune a Milano di notte, quando siamo sul posto scopriamo la dinamica: il paziente stava camminando tranquillamente sul marciapiede quando viene raggiunto da un violento colpo alla nuca che lo fa piombare sul selciato e perdere conoscenza per più di un'ora. Quando si sveglia vede una pattuglia dei Carabinieri e si avvicina, così da scoprire che in zona si sono verificati altri tre casi analoghi al suo, pare ci sia uno squilibrato in giro che va a spasso ad aggredire la gente.
Il nostro intervento si limita a poche medicazioni, il ragazzo non lamenta particolari dolori, ma quello che ci stupisce è proprio il soggetto: è alto, quasi uno e novanta, rasato e ben piazzato, si vede che fa sport. Viene fuori che sono dodici anni che è al massimo livello di kick boxing e che ha passato 2 mesi in missione con l'Esercito nei Balcani.
E' il prototipo del tipo che non va disturbato, e nonostante questo è bastato un solo colpo per mandarlo KO sul marciapiede.

I Carabinieri fermano un tizio, magrolino, con la faccia sconvolta, chiaramente alterato da chissà quali sostanze e chissà quali situazioni psicologiche, potrebbe anche essere uno dei nostri clienti abituali. Al confronto col nostro paziente peserà meno della metà. Dubito abbia mai letto Sun Tzu, od un qualsiasi altro trattato di strategia militare, ma forse in certi casi basta l'istinto per conoscere la forza dell'attacco a sorpresa.


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lunedì 5 settembre 2011

Lo zen e l'arte dell'automedicazione.


Se penso ai progressi che ha fatto la medicina nel corso della storia dell'uomo non posso che essere ben contento di non abitare in un villaggio medioevale dove l'unico rimedio per tutto consiste in qualche etto di sanguisughe appiccicato qua e la sul corpo. Ora, per la maggior parte delle cose non gravi, siamo in grado persino di cavarcela da soli grazie ai farmaci da banco che fanno passare febbri, mal di testa, nausea e tanto altro.
Diciamo però che nell'automedicarsi sarebbe saggio leggere per bene il foglietto illustrativo tutto accartocciato di fianco al blister con le compresse, così da evitare spiacevoli inconvenienti e soprattutto fare a meno di svegliare nel cuore della notte un allegro gruppetto di persone in arancione, che può diventare meno allegro nel giro di pochi istanti.
Sia chiaro, se si tratta di uscire per dare una mano a qualcuno che ha bisogno va benissimo, in fondo quando firmi un po' te lo immagini a cosa vai incontro, però c'è missione e missione, e ce ne sono alcune che proprio ti fanno dubitare delle teorie darwiniane sull'evoluzione della specie.

Sì perché se sono le 3 del mattino e ti tirano giù dal letto per un codice giallo con dolori addominali ti fai tutta una predisposizione mentale di un certo tipo, sali in ambulanza e si va in sirena (e se sono le 3 del mattino è meglio che la sirena serva, almeno per giustificare tutti gli improperi che ovviamente ci vengono diretti da chi se ne sta tra le coperte). La cosa inizia a puzzare quando il richiedente si fa trovare giù in strada, davanti al portone, piegato in due dal dolore: una rapida indagine e salta fuori che il novello Nobel per la medicina ha pensato bene di prendersi quattro volte la dose consigliata di antidolorifico contro il mal di denti e ora ha aggiunto il mal di pancia alla lista delle attività notturne.

Insomma, tu esci convinto di andare a salvare vite (non proprio eh, ma qualcosa di simile) e invece ti ritrovi a mettere una pezza al fesso di turno. Il servizio è anche questo del resto, così si porta il paziente in ospedale anche solo per vedere la faccia sconsolata dell'infermiere al triage quando gli raccontiamo il perché della nostra visita.


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sabato 3 settembre 2011

Clienti abituali



Ritrovarsi alla kneipe, la birreria, per i tedeschi è una vera istituzione tanto che i clienti abituali (gli Stammgäste) hanno a loro disposizione un tavolo riservato pronto ad accoglierli in qualsiasi momento (lo Stammtish).
Una cosa più o meno analoga succede anche nei vari posti di pronto soccorso all'interno degli ospedali milanesi, nel senso che ci sono dei, se così possiamo definirli, clienti abituali ormai familiari al personale ospedaliero dei quali si conosce la storia clinica e soprattutto la storia punto e basta. Sì perché l'habitué di cui stiamo parlando è spesso un senzatetto in cerca di un posto dove dormire e dove magari recuperare un pasto al prezzo, se proprio proprio non se ne può fare a meno, di una visita medica.
Questo le volte che vengono visitati, dato che capita spesso di arrivare al triage col paziente ubriaco fradicio e vederlo semplicemente farsi una bella dormita per poi andarsene dopo qualche ora.
Sia chiaro, quando è necessario vengono seguiti, ma la maggior parte delle loro visite è, diciamo così, di piacere.

E' così che quando arriviamo in ambulanza vengono accolti al grido di: "Ancora qui! Cosa c'è questa volta!", oppure: "Massimo, stai facendo il bravo? Le prendi le medicine?", sì perché la vita di strada porta con se il più delle volte le immaginabili patologie al fegato quando va bene, e molto di  peggio quando va male. C'è una curiosa percentuale di epilettici tra i clochard, ma non saprei dire se si tratti di semplice coincidenza o se in effetti l'eziologia dell'epilessia (tuttora in fase di studio) possa avere tra i suoi fattori anche il tipo di vita dei nostri clienti abituali.

Insomma, questo tipo di paziente è ben conosciuto, ma anche temuto al pronto soccorso. Temuto perché porta con se tutto un clima di odori, rumori e grida che definirei molesto senza l'impressione di passare per insensibile alla complicata situazione in cui si trovano. Inoltre sono soggetti che spesso disattendono le prescrizioni mediche e quindi vanificano l'intervento dei sanitari che si sentono impotenti e vedono frustrata la loro buona volontà delle prime volte.
Può succedere, dunque, di essere in attesa con il nostro "senzatetto del giorno" al triage e di vedere arrivare da dietro quell'infermiere napoletano simpatico che fa sempre due chiacchiere con i soccorritori. Si avvicina, scruta la barella e fa il giro attorno alla testa per vedere se conosce il paziente, uno sconsolato sguardo alla figura sdraiata e... "Mavafangùlo". 
Sì.
Lo conosce.

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